Ciao nonna, buon compleanno.

 

Quando avevo quattordici anni mi è capitato di pensare che mia nonna avrebbe potuto lasciarci da un momento all’altro. Non che ci fosse qualche motivo in particolare, solo il timore della perdita che di tanto in tanto si mostrava nitido, incombente, tra i solchi sulle sue mani che d’un tratto, mi ero accorto, erano diventati numerosi.
Ero solo un bambino, non avevo mai perso qualcuno e per qualche strana concezione associavo quelle mani rugose alla vecchiaia che percorreva i suoi ultimi stati.
Fortunatamente non successe mai nulla, ma li ricordo bene tutti quei sabato sera che, anziché con gli amici, ho preferito passare con lei, al buio di una piccola stanza con le mattonelle scure, a guardare ‘La corrida‘: io che mangiavo pop-corn in una vaschetta di plastica blu; lei che se ne stava sulla fiancata sinistra del divano, a ridere dei fischi e delle padellate del pubblico in televisione.
C’era un momento particolare – in quelle sere, come in tutte le altre sere – in cui, con un gesto ch’eravamo abituati a condividere fin da quando ero bambino, sentivo di volerle bene più del dovuto.
Sentivo l’avvicinarsi di questo momento particolare già quando, togliendo le mani dal grembo e arrancando per alzarsi dal divano, vedevo mia nonna trascinarsi sino al frigorifero, per poi chiedermi puntualmente: <ti lu fazzu lu latte?>.
Era la stessa domanda che, ricordo, faceva a mia madre, affacciandosi dalle scale che collegavano il suo piano terra al nostro primo piano, quando, arrivando le ventidue circa, si chiedeva come mai non fossi ancora sceso per condividere quel ‘nostro’ momento insieme.
Oggi mi viene da pensare che, forse, voleva solo un po’ di compagnia senza mai turbare le abitudini e la routine che si svolgevano sopra al suo tetto. Forse una pretesa di non restare da sola, senza farla mai passare come tale: d’altronde – mi hanno sempre detto – che, io e lei, ci siamo fatti compagnia sin dai miei primi mesi, quando ebbi il primo incarico di farla svagare dalla morte di suo marito.
Non avevo nemmeno un anno, eppure immagino che di latte me ne abbia fatto bere in abbondanza già in quel periodo.
Ad ogni modo io, al suo richiamo, rispondevo sempre, fosse anche per accompagnarla a comprare il pane appena sfornato dal panificio in fondo alla via o per farmi comprare qualcosa alla putìa dietro casa.
L’unico evento dal quale mi escludeva, e dal quale mi escludevo senza troppe storie, erano i funerali a cui andava. Tanti, tutti quelli che riguardavano il quartiere in cui è nata, cresciuta e, oggi, ahimè, morta.
Di tutte le cose che cucinava per noi, il latte era l’unica cosa che veramente apprezzavo: sebbene della stessa marca di quello che compravamo noi, era di una squisitezza che lo rendeva unico. Forse le sue mani, forse il cuore che ci metteva nel regalarmi un pezzo della sua serata, condendolo con tutto l’amore che solo una donna -e una nonna, quindi mamma- sanno dare.
Era un gesto semplice, comune, niente di che, ma aveva una magia che vi gravitava tutt’attorno che avrei continuato a sentirne l’odore per tanto tempo ancora.
Oggi mi rimangono solo le immagini, ma ho perso i profumi di quei ricordi quando ho cominciato a perdere mia nonna.
Era estate, ed era il 2012: una di quelle sere in cui tira un poco di vento piacevole, che striscia sulle braccia, passando oltre, senza penetrare nelle ossa. Ricordo che c’erano tante stelle nel cielo, poche luci fioche che illuminavano il vialetto di Torre Macauda, quello che porta all’ingresso principale della piscina. Una sola chiamata e la mia, la nostra vita, sarebbe cambiata per sempre.
E con essa, il rapporto viscerale, ma velato, con mia nonna.
Rottura del femore, avanti e indietro dall’ospedale, la convalescenza su un letto non suo, seppur dentro la sua matrimoniale, e poi l’inizio di una lunga e lenta, coi nervi mai saldi, sopportazione di una malattia che, spesso, ci ha fatto brancolare nel dubbio e nella spossatezza.
Ho visto mia nonna tenersi stretta ad un girello per anziani, parlare con sé stessa allo specchio convinta di avere estranei in casa; l’ho vista cantare e battere le mani davanti alle canzoni di ‘Cantando Ballando’ e l’ho vista cadere una volta, due, tre. L’ho vista nascondere le pesche nelle tasche del grembiule, per paura che gliele rubassimo, e l’ho vista incazzarsi quando la stuzzicavamo, giusto per vivacizzare la sua testardaggine. L’ho vista ridere di gusto, ripetendo a memorie filastrocche tutte sue.
Poi, dopo vent’anni e passa di un rapporto tutto speciale, cresciuto in sordina, col latte di un tempo e gli spiccioli che le rubavo di nascosto dal portafogli, col mio continuo andirivieni da Parma per le feste, un giorno l’ho vista anche guardarmi negli occhi e chiedermi ‘Chi sei?’.
In quel momento ricordo che capii di aver cominciato a perdere gran parte delle nostre abitudini, incluso quella del suo latte speciale.
<<To nipùti>> le risposi sorridendo, per smorzare quell’attimo. E lei si zittì, continuò a fissarmi con quegli occhi nocciola che, giuro, erano diventati più piccoli e mi chiese di darle un bacio, poi un’altro ancora quando le ripetei chi fossi, ancora un’altro quando ricordava. Un ultimo quando dimenticava di nuovo tutto.
Di me, questa bestia chiamata ‘Alzhaimer’, si dimenticò per primo, com’era ovvio che fosse, con tutte le volte che quando si riabituava ad avermi tra i piedi, anche se cresciuto, facevo valigie e zainetti per tornarmene a Parma.
Poi toccò a mio fratello, il mezzano.
Di lui non so dire quando smise di ricordarlo, ma so che ha mantenuto nella mente una qualche sua immagine per tutti gli ultimi mesi della sua vita, con la compagnia che avevano cominciato a farsi e che hanno continuato a fare fino a pochi giorni prima del suo dimenticarsi persino come tenere gli occhi aperti.
Il più piccolo dei fratelli lo riconobbe per ancora qualche anno, con tutte le innocue marachelle che un bambino di nemmeno dieci anni è capace di combinare ad una persona che, altrimenti, lo avrebbe già dimenticato tempo prima.
L’ho vista assistere alla morte della cognata, proprio di fronte al suo divano, con una indifferenza tale da abbattere ogni scherzo del destino. Loro che avevano passato tutta la vita insieme, a battibeccarsi anche sulle cose più stupide, immagino che avrebbero dovuto salutarsi per sempre con l’ultima delle loro controversie.
Invece, mia zia – sua cognata – chiuse gli occhi nel silenzio di una mattina di maggio, mia nonna si accorse di qualcosa che non andava ma se ne dimenticò già nel pomeriggio.
Perchè l’alzhaimer è così, è una bestia che non sembra feroce ma se ci metti di mezzo i ricordi, i legami, le persone, più che feroce diventa abominevole.
Intanto il tempo passava, la nostra routine ormai cambiata, il sangue mai freddo tenuto nelle situazioni più critiche, perché questa malattia fa anche questo: ti sfinisce i nervi, diventa una ‘camurrìa’ nelle parole senza senso, nelle richieste senza senso, nelle lamentele senza tempo.
Diventa un peso da sopportare che si palesa attraverso lo sguardo innocuo di mia nonna, la prima a sopportare quel peso sebbene costretta ad impersonificarlo in ogni sua sfaccettatura, anche la più comica, anche la più tragica.
Non so se nella perdita di qualcuno, si guadagna la libertà o ci si incastra nel costante rimorso di aver potuto fare di meglio. Non so nemmeno quanto, con l’alzhaimer, la perdita coincida con l’inizio della malattia o con la fine della vita.
So però che vedo mia nonna, col volto riposato, quasi perlato, dormire il sonno dei giusti: il sorriso lieve sulle labbra serrate e le mani strette al grembo fiacco, privo di respiri. Alle sue spalle, la bambola di pezza dei suoi ultimi anni: l’unica che sia stata capace di farle trovare un po’ di pace da una malattia che, per primo, snervava anche lei.
Oltre la bambola, intravedo due tazze di ceramica, quelle per il latte, quelle nostre. Ripenso al suo amore nel dire e nel fare le cose, e ripenso che ci vorrebbe di nuovo ‘La corrida’ per poterla almeno risentire morire, ma dal ridere, un’ultima volta.

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