Ovunque tu sia, io torno a trovarti.

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È una donna tutta d’un pezzo, quella che ho di fronte.
Il solito tremolio alla mano che precede il tocco della sedia in cui ha intenzione di adagiarsi si accompagna al suo dolce mormorare di quanto piacere le faccia avermi intorno, quel giorno. Le chiedo se vuole una mano d’aiuto, ma dice che è tutto ok, che io posso sedere pure dall’altra parte del tavolo, così lei saprà in che direzione rivolgere lo sguardo quando inizierà a parlarmi di lei, della sua storia, di chi è venuto prima di lei.
Esattamente il motivo per cui sono appena venuto a trovarla.
Non riceve più le visite di una volta, e quando le riceve immagino sia sempre un po’ più triste del solito, ora che non può più vedere chi le siede di fronte, ora che a mala pena distingue tra ombre e contorni. Eppure se la cava piuttosto bene, perché appunto è una donna tutta d’un pezzo, quella che ho davanti.
Si appresta a raggiungere i novanta, o pare li abbia già raggiunti. Difficile a dirsi con certezza, se quando le si domanda l’età fa sempre un po’ la sostenuta, con le curve ancora ben chiare ai lati delle labbra ogni qualvolta accenna un sorriso. Naturalmente, la sua età è chiara persino ai muri, ma lei ha tutta la voglia di questo mondo di lasciarsi andare ai riti di una vita passata.
Sembra si diverti a volere che i suoi anni restino in un angolo recondito della sua mente ancora lucida, custode di storie e ricordi che lasciano ormai il tempo che trovano. L’età non va mai chiesta, magari non a lei: una di quelle signorine ingentilite del suo tempo, che porta con sé storie di un’America lontana, frutto di passati e presenti che si intersecano tra loro tutte le volte che si sforza di usare qualche intercalare d’oltremare che fatica a pronunciare correttamente.
Mentre si accerta che io sia già seduto, provando a seguire i miei contorni smussati in mezzo a tutto quel buio, le chiedo, a prenderla in giro, quanti anni abbia. Lei accenna un sorriso, pronuncia una frase di rito che ora, a distanza di quasi un anno, mi sforzo di ricordare ma la memoria trova solo parole e pronunce sbiadite e non c’è nessuno a cui rivolgermi adesso, se non una cucina inscatolata tra polveri e odori di un ambiente che parlano di lei ma cui lei non appartiene più.
Mi dirà la sua data di nascita a breve.
Adesso è più importante che io sappia abbia intenzione di tagliare i capelli bianchi perché le punte le solleticano il collo e non va bene. Gli acciacchi, quelli fisici, quelli visibili, se li porta appresso da un po’ ma niente di serio; il passo trascinato ha visto tempi migliori, quando da casa sua, dopo la solita sosta in parruccheria, veniva a passare del tempo con noi nipoti, percorrendo a piedi qualche centinaio di metri.
Sembra ci sia poco di cui preoccuparsi, comunque: alla fine cosa vuoi che sia un trascinarsi continuo sempre intorno alla stessa cucina, vagando nella notte più buia dei tuoi occhi, convincendosi di essere in chissà quale angolo della stanza e invece trovarsi da tutt’altra parte?
Come dicevo, è una donna forte quella che ho davanti.
Alle mie spalle, sulla superficie di fianco alla credenza, le statuette del presepe, lasciate lì ormai da chissà quanto tempo, a rimpiangere il natale passato e a prospettare quello a venire, fanno da cornice ad un ambiente cupo che si abbandona a pochi filtri di luce ogni volta che le persiane vengono aperte. E questo, ormai, accade sempre meno.
Il Santo Giuseppe, la vergine Maria, il bambin Gesù hanno perso un po’ di smalto, come lei d’altronde, e se ne stanno ancora nello stesso posto di sempre, quello che una volta vedeva la fitta presenza di cartoline natalizie che quando le si apriva c’era sempre una canzoncina a fare da sfondo agli auguri che lei scriveva di suo pugno per nipoti e figli dei nipoti.
Lei che figli non ne aveva mai avuti.
Questo ormai non accade più, le cartoline sono scomparse, e quel che resta della mano fragile di questa donna forte, austera, di una femminilità d’altra terra, è solo la firma che ripone nei documenti della pensione, delle medicine.
Chissà cosa avrebbe scritto per i Natali a venire, se avesse goduto di uno sguardo maggiore, lei che problemi a scrivere, a destreggiarsi tra l’arretrato italiano e l’arrugginito inglese non ne aveva mai avuti. Forse il solito ‘Merry Christmas’. Firmato Zia Anna.
Già, perché questa donna tutta d’un pezzo, che ha sempre preferito le gonne ai pantaloni e indossato le giacche solo con spille eleganti, che ha sempre curato le acconciature tanto quanto la fede e la salute, è proprio mia zia.
Non era, ma è.
Perché un po’ come mio nonno, decidere di andarsene in un certo periodo della propria vita, non fa di sé stessi il passato. Almeno non finché qualcuno ne avrà memoria nel cuore e sarà in grado di parlarne. Così io, che quando avverto il bisogno di sentire la presenza di questa arzilla novantenne, con la mente torno sempre a trovarla in casa sua per farmi parlare di lei, per risalire ai suoi parenti -e ai miei quindi- così da scoprire le mie origini. E le sue.
Ogni volta torno a trovarla nel 2013 e ogni cosa riprende il suo posto. Ogni cosa che il suo posto lo abbia perso quando il percorso naturale di una vita agli sgoccioli ha deciso di farla smettere di andare in chiesa, come tutte le domeniche, come tutte le mattine, per visitare di persona l’oltre di questa vita.
Dicevo: ogni volta che penso a lei, che la immagino, tenendo ben vivi i suoi lineamenti e il suo portamento, mi trovo sempre ad essere accolto da una novantenne, o quasi novantenne per l’appunto, che nel 2013 ascolta Radio Maria e prega in silenzio.
Le mani incrociate contro il ventre, gli occhi chiusi e la fronte corrugata, quasi si impegnasse a trattenere le preghiere per paura di dimenticarle il giorno dopo.
Ogni volta che torno a visitarla, col mio Block-notes e una penna per prendere appunti riguardo a quello che mi racconterà da lì a breve, fa sempre bella giornata. Non so perché, ma sono quasi certo che la volta che andai a trovarla per davvero, per sedermi con lei attorno a quel tavolo, facesse bel tempo. Se alle mie spalle restano i residui di un presepe che non verrà più fatto, alle sue, invece, bolle un pentolino.
Già, tanto forte da riuscire a cucinarsi da sola, quel che può, nonostante la cecità. Tanto forte da non subire l’andirivieni quotidiano che la porta spesso al piano di sopra, e a quello sopra ancora per poi scendere le scale sfiorando le pareti del muro.
Così non può cadere, prova a convincersene. Non deve cadere, perché vuole risparmiarsi tutta la fatica di dover pesare su quei nipoti, gli unici che abbia, che invece preferirebbe sapere sempre liberi da ogni croce. Prima di farmi sedere si accerta di perlustrarmi per bene: se ha già perso la vista, non vuol dire debba anche perdere l’idea che si farà di me, se sono ingrassato, se mi trova più alto.
Mi vuole bene lo stesso, me lo ripete in quella data e me lo ripeterà ogni volta che andrò a salutarla prima di tornarmene a Parma.
Tanto di cappello a questa donna, dimostrazione del fatto che un’alternativa la si trova sempre. Bisogna solo non farsela pesare.
E lei stessa, per quanto non si faccia pesare i troppi anni alle spalle, i ricordi ancora vividi, persino la perenne condizione di vivere una notte senza fine, ha le sue debolezze. E più passa il tempo, più se ne rattrista. Se i suoi occhi non possono più vedere, delle volte non possono fare a meno di lacrimare per le tante cose che vorrebbe assimilare con un solo, semplice, banale sguardo: il volto della mia ragazza, il colore del nuovo giubbino del nipote, il volto della nipotina appena nata.
Tutte cose dalle quali non può fuggire e che, sono certo, restano con lei ogni volta che chiude la porta di casa e resta da sola tra i mobili, quando siede di fianco al telefono in attesa di una chiamata da quel Canadà in cui ha spontaneamente lasciato un pezzo di cuore, quel porto lontano da casa in cui espresse al meglio la sua bellezza, la sua fisicità, il suo trucco, gli abiti americani e la casetta sulla 19esima strada est di Hamilton, nella quale ha vissuto col marito costruendosi una rete di relazioni sociali che l’hanno accompagnata sino alla morte.
Nulla a che vedere con l’altra sua casa, Ribera, dove anni or sono incontrò l’amore della sua vita, un militare che sfilava davanti la sua casa e si innamorò subito dei suoi pomposi capelli rossi.
Matrimonio fu, per intercessione di un terzo che venne a riferire a mia zia dell’intento di quel militare di convolare a nozze. E a nozze convolarono, con un vestito da sposa che fu indossato da altre dopo di lei, con ceci e fave da contorno a una cerimonia in una stanza, di cui, a differenza di tante sue coetanee, ricorda ancora qualcosa.
Nulla a che vedere, il Canadà, con l’altra sua casa, Ribera, dove visse la spensierata fanciullezza frequentando una scuola di sartoria.
Eppure, sebbene il paragone incontrastabile, da Ribera venne e a Ribera tornò per i suoi ultimi vent’anni di vita.
L’America, invece, fu solo una parentesi che la caratterizzò per tutti gli anni a seguire. Insomma, basta guardare dentro il suo armadio e rendersi conto di quanto appeal esercitasse tutto il suo buon costume d’una volta. Basta perdersi tra i quadri che tiene in casa e quel mito di ‘zia d’America’ che la seguì ovunque andasse.
Cose che non torneranno, queste. Lei lo sa bene, così come non torneranno le candeline sulla torta ad ogni suo compleanno, per la foto di rito coi parenti che da qualche anno non riesce più a vedere, ma questo non la ferma dallo scattarne sempre una nuova.
I suoi anni, così, diventano chiari su una torta, lei che scherzando cercava di nasconderli sempre, e si affiancano a vassoi di tavola calda, che lei stessa comprerà per il solo piacere di avere qualcuno intorno. Non qualcuno qualsiasi, ma qualcuno che ne condividesse il sangue, il passato, che fosse il frutto di un fratello morto negli anni novanta, che soccombesse alla morte dell’altro fratello in Francia e tutta una serie di mancanze cui prima o poi tutti andiamo incontro.
Mi chiede se voglio della coca-cola, io che sin da bambino gliene rubavo una bottiglia ogni volta che andassi a trovarla. Ma da qualche tempo ho smesso.
Poi si perde nel vuoto ed io la lascio fare, perché farle riportare lo sguardo sulla mia posizione è più facile a dirsi che a farsi, lei che è convinta, ahimè, di continuare a guardarmi. Stavolta accenno io un sorriso, di quelli che hanno un retrogusto amaro, di quelli che ti fanno desiderare e sperare di non arrivare mai a quel punto, che ti fanno sentire piccolo in confronto ad una donna di novant’anni, mai anziana se non negli ultimi dieci mesi di vita, che invece ha avuto il coraggio di prender di petto ogni decisione che il suo Signore avesse preso per lei.
Visto che della sua età non vuol parlare, le chiedo di parlarmi della sua vita, della sua storia e lei non esita un minuto. Alza gli occhi al cielo, come a cercare di appigliarsi ad un ricordo esatto da cui partire.
Gli occhi al cielo, già. Che cielo buio!
Mi racconta dei suoi genitori, cita il nome della sarta che le trasmise la passione d’una vita, estrae dal bagaglio del suo passato aneddoti e storielle su modi di dire e di fare della Ribera degli anni 50. Io prendo appunti.
Un giorno scriverò di lei, mi dico tra me e me, e adesso lo sto proprio facendo.
Nel mentre parla, quando torno a visitarla con la mente in quel 2013, mi piacerebbe tanto interromperla e concentrarmi più sul suo volto.
Ho la sensazione che allora celasse tanta più nostalgia di quanto non mi mostrò o io non fui in grado di cogliere. Eppure mi limito sempre a lasciarla parlare, perché la sensazione di tristezza che penso l’attanagliasse ogni qualvolta si riferiva ad immagini ed eventi che riusciva solo ad immaginare, senza nemmeno posare più lo sguardo su una foto ricordo, è niente in confronto alla sua voce: l’unica cosa della quale temo, pian piano, di cominciare a perdere le tracce.
Provo per la prima volta anch’io una piccola sensazione di buio, e immagino quanto grande fosse invece il suo, di buio. Così grande da perdersi tra la porta del bagno e quella delle scale prima di fare una brutta caduta che la costrinse a passare i suoi ultimi dieci mesi di vita su un letto, in una casa non sua, con sapori non suoi, ma con tutto l’affetto di cui aveva bisogno dal suo stesso sangue, da una nipote a cui decise di affidare l’intera sua vita e salute.
Quella sul letto, impossibilitata ad alzarsi e a camminare in una casa non sua, è una donna totalmente diversa da quella che vado sempre a visitare: nell’aspetto, nella voce rauca, nell’udito sempre meno presente, e il nero totale nei suoi occhi, senza il minimo spazio di ombre e contorni.
Nemmeno più quello.
E così, ad una donna forte e negli ultimi anni anche cieca, che si cucinava da sola, si lavava da sola, pigiava a memoria sui tasti del telefono senza nemmeno vedere dove fosse il tre o il quattro, si è venuta a sostituire una donna debole, che ha lasciato cadere ogni corazza, che ha bisogno di qualcuno che le faccia sorseggiare la sua coca-cola, che le cambi il panno e che la controlli quando -mostrando gli ultimi segni di forza rimasti- si intestardisce e decide che deve alzarsi dal letto. E lo fa, con le gambe tutte esili e con solo addosso i pigiami e le sottane di una vita al chiuso, sostituitesi agli eleganti vestiti di stoffa pregiata. Un ultimo vestito però, lo ha voluto indossare, dentro quella bara dove al buio degli occhi è stata sopraggiunta da quello del cuore, dell’anima.
Immagini forti, tristi ricordi, legati tra loro da un sottile strato di nostalgia. Momenti anche belli, ma mai belli quanto quel 2013 in cui una donna tutta d’un pezzo mi accoglie a casa sua e mi parla di sé.
È lì che vado ogni volta con la mente, ed è lì che sto andando adesso. A trovarla ancora, per pochi istanti, e sentirmi vicino ad una persona che vicina, fisicamente, non mi è più.

E il 2013 viene all’improvviso. Ed io sono fuori la sua porta, in attesa che venga ad aprirmi. La chiave ruota nella serratura più volte. Da fuori riesco a sentire Radio Maria in sottofondo e la voce meccanica di una radiolina che disturba le sue preghiere per ricordarle l’ora. Poi lei, come sempre, mi apre e mi accoglie in casa.
E tutto è improvvisamente più bello.