Ciao nonna, buon compleanno.

 

Quando avevo quattordici anni mi è capitato di pensare che mia nonna avrebbe potuto lasciarci da un momento all’altro. Non che ci fosse qualche motivo in particolare, solo il timore della perdita che di tanto in tanto si mostrava nitido, incombente, tra i solchi sulle sue mani che d’un tratto, mi ero accorto, erano diventati numerosi.
Ero solo un bambino, non avevo mai perso qualcuno e per qualche strana concezione associavo quelle mani rugose alla vecchiaia che percorreva i suoi ultimi stati.
Fortunatamente non successe mai nulla, ma li ricordo bene tutti quei sabato sera che, anziché con gli amici, ho preferito passare con lei, al buio di una piccola stanza con le mattonelle scure, a guardare ‘La corrida‘: io che mangiavo pop-corn in una vaschetta di plastica blu; lei che se ne stava sulla fiancata sinistra del divano, a ridere dei fischi e delle padellate del pubblico in televisione.
C’era un momento particolare – in quelle sere, come in tutte le altre sere – in cui, con un gesto ch’eravamo abituati a condividere fin da quando ero bambino, sentivo di volerle bene più del dovuto.
Sentivo l’avvicinarsi di questo momento particolare già quando, togliendo le mani dal grembo e arrancando per alzarsi dal divano, vedevo mia nonna trascinarsi sino al frigorifero, per poi chiedermi puntualmente: <ti lu fazzu lu latte?>.
Era la stessa domanda che, ricordo, faceva a mia madre, affacciandosi dalle scale che collegavano il suo piano terra al nostro primo piano, quando, arrivando le ventidue circa, si chiedeva come mai non fossi ancora sceso per condividere quel ‘nostro’ momento insieme.
Oggi mi viene da pensare che, forse, voleva solo un po’ di compagnia senza mai turbare le abitudini e la routine che si svolgevano sopra al suo tetto. Forse una pretesa di non restare da sola, senza farla mai passare come tale: d’altronde – mi hanno sempre detto – che, io e lei, ci siamo fatti compagnia sin dai miei primi mesi, quando ebbi il primo incarico di farla svagare dalla morte di suo marito.
Non avevo nemmeno un anno, eppure immagino che di latte me ne abbia fatto bere in abbondanza già in quel periodo.
Ad ogni modo io, al suo richiamo, rispondevo sempre, fosse anche per accompagnarla a comprare il pane appena sfornato dal panificio in fondo alla via o per farmi comprare qualcosa alla putìa dietro casa.
L’unico evento dal quale mi escludeva, e dal quale mi escludevo senza troppe storie, erano i funerali a cui andava. Tanti, tutti quelli che riguardavano il quartiere in cui è nata, cresciuta e, oggi, ahimè, morta.
Di tutte le cose che cucinava per noi, il latte era l’unica cosa che veramente apprezzavo: sebbene della stessa marca di quello che compravamo noi, era di una squisitezza che lo rendeva unico. Forse le sue mani, forse il cuore che ci metteva nel regalarmi un pezzo della sua serata, condendolo con tutto l’amore che solo una donna -e una nonna, quindi mamma- sanno dare.
Era un gesto semplice, comune, niente di che, ma aveva una magia che vi gravitava tutt’attorno che avrei continuato a sentirne l’odore per tanto tempo ancora.
Oggi mi rimangono solo le immagini, ma ho perso i profumi di quei ricordi quando ho cominciato a perdere mia nonna.
Era estate, ed era il 2012: una di quelle sere in cui tira un poco di vento piacevole, che striscia sulle braccia, passando oltre, senza penetrare nelle ossa. Ricordo che c’erano tante stelle nel cielo, poche luci fioche che illuminavano il vialetto di Torre Macauda, quello che porta all’ingresso principale della piscina. Una sola chiamata e la mia, la nostra vita, sarebbe cambiata per sempre.
E con essa, il rapporto viscerale, ma velato, con mia nonna.
Rottura del femore, avanti e indietro dall’ospedale, la convalescenza su un letto non suo, seppur dentro la sua matrimoniale, e poi l’inizio di una lunga e lenta, coi nervi mai saldi, sopportazione di una malattia che, spesso, ci ha fatto brancolare nel dubbio e nella spossatezza.
Ho visto mia nonna tenersi stretta ad un girello per anziani, parlare con sé stessa allo specchio convinta di avere estranei in casa; l’ho vista cantare e battere le mani davanti alle canzoni di ‘Cantando Ballando’ e l’ho vista cadere una volta, due, tre. L’ho vista nascondere le pesche nelle tasche del grembiule, per paura che gliele rubassimo, e l’ho vista incazzarsi quando la stuzzicavamo, giusto per vivacizzare la sua testardaggine. L’ho vista ridere di gusto, ripetendo a memorie filastrocche tutte sue.
Poi, dopo vent’anni e passa di un rapporto tutto speciale, cresciuto in sordina, col latte di un tempo e gli spiccioli che le rubavo di nascosto dal portafogli, col mio continuo andirivieni da Parma per le feste, un giorno l’ho vista anche guardarmi negli occhi e chiedermi ‘Chi sei?’.
In quel momento ricordo che capii di aver cominciato a perdere gran parte delle nostre abitudini, incluso quella del suo latte speciale.
<<To nipùti>> le risposi sorridendo, per smorzare quell’attimo. E lei si zittì, continuò a fissarmi con quegli occhi nocciola che, giuro, erano diventati più piccoli e mi chiese di darle un bacio, poi un’altro ancora quando le ripetei chi fossi, ancora un’altro quando ricordava. Un ultimo quando dimenticava di nuovo tutto.
Di me, questa bestia chiamata ‘Alzhaimer’, si dimenticò per primo, com’era ovvio che fosse, con tutte le volte che quando si riabituava ad avermi tra i piedi, anche se cresciuto, facevo valigie e zainetti per tornarmene a Parma.
Poi toccò a mio fratello, il mezzano.
Di lui non so dire quando smise di ricordarlo, ma so che ha mantenuto nella mente una qualche sua immagine per tutti gli ultimi mesi della sua vita, con la compagnia che avevano cominciato a farsi e che hanno continuato a fare fino a pochi giorni prima del suo dimenticarsi persino come tenere gli occhi aperti.
Il più piccolo dei fratelli lo riconobbe per ancora qualche anno, con tutte le innocue marachelle che un bambino di nemmeno dieci anni è capace di combinare ad una persona che, altrimenti, lo avrebbe già dimenticato tempo prima.
L’ho vista assistere alla morte della cognata, proprio di fronte al suo divano, con una indifferenza tale da abbattere ogni scherzo del destino. Loro che avevano passato tutta la vita insieme, a battibeccarsi anche sulle cose più stupide, immagino che avrebbero dovuto salutarsi per sempre con l’ultima delle loro controversie.
Invece, mia zia – sua cognata – chiuse gli occhi nel silenzio di una mattina di maggio, mia nonna si accorse di qualcosa che non andava ma se ne dimenticò già nel pomeriggio.
Perchè l’alzhaimer è così, è una bestia che non sembra feroce ma se ci metti di mezzo i ricordi, i legami, le persone, più che feroce diventa abominevole.
Intanto il tempo passava, la nostra routine ormai cambiata, il sangue mai freddo tenuto nelle situazioni più critiche, perché questa malattia fa anche questo: ti sfinisce i nervi, diventa una ‘camurrìa’ nelle parole senza senso, nelle richieste senza senso, nelle lamentele senza tempo.
Diventa un peso da sopportare che si palesa attraverso lo sguardo innocuo di mia nonna, la prima a sopportare quel peso sebbene costretta ad impersonificarlo in ogni sua sfaccettatura, anche la più comica, anche la più tragica.
Non so se nella perdita di qualcuno, si guadagna la libertà o ci si incastra nel costante rimorso di aver potuto fare di meglio. Non so nemmeno quanto, con l’alzhaimer, la perdita coincida con l’inizio della malattia o con la fine della vita.
So però che vedo mia nonna, col volto riposato, quasi perlato, dormire il sonno dei giusti: il sorriso lieve sulle labbra serrate e le mani strette al grembo fiacco, privo di respiri. Alle sue spalle, la bambola di pezza dei suoi ultimi anni: l’unica che sia stata capace di farle trovare un po’ di pace da una malattia che, per primo, snervava anche lei.
Oltre la bambola, intravedo due tazze di ceramica, quelle per il latte, quelle nostre. Ripenso al suo amore nel dire e nel fare le cose, e ripenso che ci vorrebbe di nuovo ‘La corrida’ per poterla almeno risentire morire, ma dal ridere, un’ultima volta.

Quello che resta è un po’ di sole.

 

Dov’è questa sera la luna, io non saprei mica dirtelo. Su di me non vedo altro che nuvole grigie di malinconia pronte ad accogliere il più triste dei temporali. Dicono stia per arrivare, per prima con il suo debole soffio di vento, di quelli che sembra quasi graffiarti la pelle, ma con delicatezza, poi con la prima ondata di lacrime amare su consumati asfalti di storie vissute. La luna, io, non saprei nemmeno descrivertela. Perché provo ad immaginarla, sai? Ma non vedo che disincantate crepe. Non vedo uomini camminarci, eppure qualcuno sembra averlo già fatto. Non vedo donne sfilarci su eleganti tacchi di coraggio. Anche queste, comunque, sembrano esserci già state, lì, sulla luna che sfugge al mio sguardo.
In realtà, se ci penso, non saprei nemmeno parlarti delle stelle. Sono una frana lo so, non saprei dirti quale sia quella più vicina o quella più lontana, quale quella più luminosa. Io, che delle stelle non vedo altro che bianchi puntini su tiepidi cieli nero acqua.
Eppure, sai, sarei capace di dirti l’ora esatta del crepuscolo di domani, il magico momento in cui il cielo comincia a tingersi di rosa, come latte versato su vuoti paesaggi di abbandono.
Volendo, potrei anche dedicarti il migliore dei tramonti che tu abbia mai visto. Questo sarei ben capace di farlo, a portarti tra i dettagli di bianche nuvole di poesia, di quelle che girando l’angolo non trovi mai la luna, ma gli ultimi raggi di sole che si infilzano contro chiare e scure pelli, senza fare distinzione alcuna.
Giuro che, se proprio dovessi sentirne il bisogno, questo sole potrei anche fartelo vedere in mezzo al bosco, con le sue rette parallele che si autoinvitano tra le feste private di sottili rami in penombra, danzanti foglie ubriache di disparate venature.
Torno a dirti, però, che non sarei mai capace di lasciarti puntare il telescopio per una intera notte. Io non vedo mai la luna, ma artificiali luci. Non vedo mai le stelle che, seppur belle, non cambia il fatto brillino in mezzo al buio.
E mi perdo la meravigliosa quiete della sera, dirai, e lo so bene anch’io. Ma questa luna no, troppo lontana dagli altri pianeti, dal nostro, troppo piena dei suoi cazzi per pensare anche a noi. Il sole, invece, basta che si poggi sul solo volto di uno sconosciuto incontrato per strada che tutt’intorno sembra quasi addolcirsi, rinvigorirsi di fugaci romanticherie. Di quelle che apprezzi, mai troppo sdolcinate. Che non si servono di parole, ma di visuali. Questo sole, lui sì che mi piace. Occhi vuoti che non conoscono, che non conosco, che cambiano colore quando un solo accenno di luce li colpisce in pieno sul viso. Pelli che non hanno odore che quasi brillano di gioie che non sono più nostre, che non sono nemmeno gioie. Che potrei chiamare ricordi di te su altre persone ma che preferisco chiamare ricordi da dimenticare.
Potrei anche fartela, se proprio ci tieni, una breve lezione sulla luna. Condirei quel breve lasso di tempo in cui tu staresti ad ascoltarmi e a guardarmi con patetiche metafore di vita vissuta, di vita nostra. E ci infilerei una te a caso per ricordarti chi eri. Chi ero io. Chi sono ancora. Chi non sarò più, chi non sarò mai.
Finito di spiegarti tutto ciò potrei anche fare il sacrificio di portarti su una piccola collina, facilmente raggiungibile con la nostra macchina, e aspettare di vedere la luna nella sua forma migliore spuntare tra incerte nubi di preavvisate piogge. Ti scioglierei la coda e per un po’ giocherei con quei tuoi lunghi capelli castani d’una volta. Poi una ciocca dietro l’orecchio sinistro e ti darei un solo e sincero bacio sul collo prima di prenderti la mano e dirigerla, assieme alla mia, verso il buio del cielo.
Ti indicherei la luna, quella lì, quella che non mi piace ma che con te è sempre un po’ più bella, e per una volta potrei anche fare a meno di sentire il bisogno di essere avvolto dalla luce del sole, dalla pesantezza delle nuvole al tramonto sul mare.
Un po’ soffrirei, però, quando io starei a guardarla, questa luna, provando a perdermi tra le sue crepe, che somigliano tanto alle cicatrici che porto di te ma che nessuno mai vede, e tu, invece, anziché guardarla per come la guardo io ti perderesti a guardarmi il dito. Che tristezza sì, io che ti indico la luna e tu che mi guardi il dito. Cosa vuoi capirne, allora, dell’amore se le tue mancanze le concentri tutte su queste piccole cose? Che sono tutto, che sono parte, che sono niente, ma sono sempre un po’ me.
Mi chiederesti scusa per la profondità mancata, per il tatto assente, per la testa altrove e che altrove ha un nome diverso dal mio. Così, sempre su quella collina, dove avrei tanto voluto consumare passioni d’un secolo tutte in una volta, ti riporterei a casa, quella non più mia. Ti lascerei andare, e poi mi lascerei andare. Aspetterei tue notizie fino a tarda notte ma non arriverebbero, comincerei a guardare la luna ogni sera e me la prenderei con lei, per le colpe che non ha, per quelle che hai tu, per quelle che faccio pesare alle altre per il solo fatto di non essere come te.
Mi accascerei ad un romantico tavolo di tristi sedute e per la prima volta ordinerei qualcosa che sia più mio che nostro e sì, il mio palato quanto ne gioirebbe, ma quanti centimetri di filo spinato si aggroviglierebbero attorno alla gola, poi.
Dov’è questa sera la luna, io forse saprei dirtelo. Dove sei tu, invece, no. Non di fronte a me, a tenere calda quella vuota sedia in legno che mi fissa, e che fisso, provando ad immaginare le tue lunghe braccia su quel piccolo tavolo mentre le mani gesticolano per qualcosa che ti diverte, per qualcosa che dico io, o che dici tu a me. Le gambe accavallate ai lati del tavolo e il piede destro, che sta sopra, che si muove di continuo come il migliore dei tic che potrei non voler mai smettere di guardare.
Questa sera ti sento, nelle sigarette fumate da solo, nel primo bicchiere di vino rosso andato a puttane contro stomaci di ferro. Nel piatto fumante di carbonara che ho appena ordinato e che manca sempre un po’ di gusto. Questa sera la sento, nell’aria, la fresca brezza del passato che torna a graffiare prima sulla pelle, poi sempre un po’ più vicino al cuore, senza mai sfiorarlo, senza mai affrontarlo.
Per la prima volta potrei anche averti cercato tra quelle stelle che non ho mai guardato ma sai, come tutte le altre volte, non ti ho trovata nemmeno qui. Quale fosse quella più luminosa, quella più distante, quella più vicina io continuo a non sapertelo dire. Se questo è un limite, mi sta anche bene. Ci ho provato, io, a guardare la luna per te, ad indicartela senza nemmeno sapere di muovere il braccio verso la perfetta direzione prospettica. Te ne ho parlato, senza nemmeno conoscerne il diametro, solo perché farmi ascoltare e parlarti era bello tanto quanto insegnarti me stesso, farti diventare me ed io diventare te. Simbiosi di anime, universi in disparte dalla luna. E anche dal sole.
Questa sera non ci sei, e questo è l’importante. Perché posso tornare a godermi il mio sole, i miei tramonti, le mie albe, senza nemmeno sforzarmi di portarti un po’ di luna ogni qualvolta sentissi il bisogno d’averne anche solo un pezzo, senza mai chiederlo. Questa sera non ci sei, a questo tavolo vuoto, in questa città sempre in movimento, non ci sei sotto i lampioni di piazza dei Mercanti. Ciononostante, ogni tanto, uno sguardo alla luna torno comunque a darlo. Per ricordarci, giusto quel quanto basta. Questa sera non c’è nemmeno la luna, e se c’è è ben nascosta da nuvole non mie. Un po’ come te.
Tutto questo mi sta bene, potrà anche non esserci la luna, questa sera. Ma nulla impedirà che domani vivrò un’altra bellissima giornata di sole.

Ovunque tu sia, io torno a trovarti.

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È una donna tutta d’un pezzo, quella che ho di fronte.
Il solito tremolio alla mano che precede il tocco della sedia in cui ha intenzione di adagiarsi si accompagna al suo dolce mormorare di quanto piacere le faccia avermi intorno, quel giorno. Le chiedo se vuole una mano d’aiuto, ma dice che è tutto ok, che io posso sedere pure dall’altra parte del tavolo, così lei saprà in che direzione rivolgere lo sguardo quando inizierà a parlarmi di lei, della sua storia, di chi è venuto prima di lei.
Esattamente il motivo per cui sono appena venuto a trovarla.
Non riceve più le visite di una volta, e quando le riceve immagino sia sempre un po’ più triste del solito, ora che non può più vedere chi le siede di fronte, ora che a mala pena distingue tra ombre e contorni. Eppure se la cava piuttosto bene, perché appunto è una donna tutta d’un pezzo, quella che ho davanti.
Si appresta a raggiungere i novanta, o pare li abbia già raggiunti. Difficile a dirsi con certezza, se quando le si domanda l’età fa sempre un po’ la sostenuta, con le curve ancora ben chiare ai lati delle labbra ogni qualvolta accenna un sorriso. Naturalmente, la sua età è chiara persino ai muri, ma lei ha tutta la voglia di questo mondo di lasciarsi andare ai riti di una vita passata.
Sembra si diverti a volere che i suoi anni restino in un angolo recondito della sua mente ancora lucida, custode di storie e ricordi che lasciano ormai il tempo che trovano. L’età non va mai chiesta, magari non a lei: una di quelle signorine ingentilite del suo tempo, che porta con sé storie di un’America lontana, frutto di passati e presenti che si intersecano tra loro tutte le volte che si sforza di usare qualche intercalare d’oltremare che fatica a pronunciare correttamente.
Mentre si accerta che io sia già seduto, provando a seguire i miei contorni smussati in mezzo a tutto quel buio, le chiedo, a prenderla in giro, quanti anni abbia. Lei accenna un sorriso, pronuncia una frase di rito che ora, a distanza di quasi un anno, mi sforzo di ricordare ma la memoria trova solo parole e pronunce sbiadite e non c’è nessuno a cui rivolgermi adesso, se non una cucina inscatolata tra polveri e odori di un ambiente che parlano di lei ma cui lei non appartiene più.
Mi dirà la sua data di nascita a breve.
Adesso è più importante che io sappia abbia intenzione di tagliare i capelli bianchi perché le punte le solleticano il collo e non va bene. Gli acciacchi, quelli fisici, quelli visibili, se li porta appresso da un po’ ma niente di serio; il passo trascinato ha visto tempi migliori, quando da casa sua, dopo la solita sosta in parruccheria, veniva a passare del tempo con noi nipoti, percorrendo a piedi qualche centinaio di metri.
Sembra ci sia poco di cui preoccuparsi, comunque: alla fine cosa vuoi che sia un trascinarsi continuo sempre intorno alla stessa cucina, vagando nella notte più buia dei tuoi occhi, convincendosi di essere in chissà quale angolo della stanza e invece trovarsi da tutt’altra parte?
Come dicevo, è una donna forte quella che ho davanti.
Alle mie spalle, sulla superficie di fianco alla credenza, le statuette del presepe, lasciate lì ormai da chissà quanto tempo, a rimpiangere il natale passato e a prospettare quello a venire, fanno da cornice ad un ambiente cupo che si abbandona a pochi filtri di luce ogni volta che le persiane vengono aperte. E questo, ormai, accade sempre meno.
Il Santo Giuseppe, la vergine Maria, il bambin Gesù hanno perso un po’ di smalto, come lei d’altronde, e se ne stanno ancora nello stesso posto di sempre, quello che una volta vedeva la fitta presenza di cartoline natalizie che quando le si apriva c’era sempre una canzoncina a fare da sfondo agli auguri che lei scriveva di suo pugno per nipoti e figli dei nipoti.
Lei che figli non ne aveva mai avuti.
Questo ormai non accade più, le cartoline sono scomparse, e quel che resta della mano fragile di questa donna forte, austera, di una femminilità d’altra terra, è solo la firma che ripone nei documenti della pensione, delle medicine.
Chissà cosa avrebbe scritto per i Natali a venire, se avesse goduto di uno sguardo maggiore, lei che problemi a scrivere, a destreggiarsi tra l’arretrato italiano e l’arrugginito inglese non ne aveva mai avuti. Forse il solito ‘Merry Christmas’. Firmato Zia Anna.
Già, perché questa donna tutta d’un pezzo, che ha sempre preferito le gonne ai pantaloni e indossato le giacche solo con spille eleganti, che ha sempre curato le acconciature tanto quanto la fede e la salute, è proprio mia zia.
Non era, ma è.
Perché un po’ come mio nonno, decidere di andarsene in un certo periodo della propria vita, non fa di sé stessi il passato. Almeno non finché qualcuno ne avrà memoria nel cuore e sarà in grado di parlarne. Così io, che quando avverto il bisogno di sentire la presenza di questa arzilla novantenne, con la mente torno sempre a trovarla in casa sua per farmi parlare di lei, per risalire ai suoi parenti -e ai miei quindi- così da scoprire le mie origini. E le sue.
Ogni volta torno a trovarla nel 2013 e ogni cosa riprende il suo posto. Ogni cosa che il suo posto lo abbia perso quando il percorso naturale di una vita agli sgoccioli ha deciso di farla smettere di andare in chiesa, come tutte le domeniche, come tutte le mattine, per visitare di persona l’oltre di questa vita.
Dicevo: ogni volta che penso a lei, che la immagino, tenendo ben vivi i suoi lineamenti e il suo portamento, mi trovo sempre ad essere accolto da una novantenne, o quasi novantenne per l’appunto, che nel 2013 ascolta Radio Maria e prega in silenzio.
Le mani incrociate contro il ventre, gli occhi chiusi e la fronte corrugata, quasi si impegnasse a trattenere le preghiere per paura di dimenticarle il giorno dopo.
Ogni volta che torno a visitarla, col mio Block-notes e una penna per prendere appunti riguardo a quello che mi racconterà da lì a breve, fa sempre bella giornata. Non so perché, ma sono quasi certo che la volta che andai a trovarla per davvero, per sedermi con lei attorno a quel tavolo, facesse bel tempo. Se alle mie spalle restano i residui di un presepe che non verrà più fatto, alle sue, invece, bolle un pentolino.
Già, tanto forte da riuscire a cucinarsi da sola, quel che può, nonostante la cecità. Tanto forte da non subire l’andirivieni quotidiano che la porta spesso al piano di sopra, e a quello sopra ancora per poi scendere le scale sfiorando le pareti del muro.
Così non può cadere, prova a convincersene. Non deve cadere, perché vuole risparmiarsi tutta la fatica di dover pesare su quei nipoti, gli unici che abbia, che invece preferirebbe sapere sempre liberi da ogni croce. Prima di farmi sedere si accerta di perlustrarmi per bene: se ha già perso la vista, non vuol dire debba anche perdere l’idea che si farà di me, se sono ingrassato, se mi trova più alto.
Mi vuole bene lo stesso, me lo ripete in quella data e me lo ripeterà ogni volta che andrò a salutarla prima di tornarmene a Parma.
Tanto di cappello a questa donna, dimostrazione del fatto che un’alternativa la si trova sempre. Bisogna solo non farsela pesare.
E lei stessa, per quanto non si faccia pesare i troppi anni alle spalle, i ricordi ancora vividi, persino la perenne condizione di vivere una notte senza fine, ha le sue debolezze. E più passa il tempo, più se ne rattrista. Se i suoi occhi non possono più vedere, delle volte non possono fare a meno di lacrimare per le tante cose che vorrebbe assimilare con un solo, semplice, banale sguardo: il volto della mia ragazza, il colore del nuovo giubbino del nipote, il volto della nipotina appena nata.
Tutte cose dalle quali non può fuggire e che, sono certo, restano con lei ogni volta che chiude la porta di casa e resta da sola tra i mobili, quando siede di fianco al telefono in attesa di una chiamata da quel Canadà in cui ha spontaneamente lasciato un pezzo di cuore, quel porto lontano da casa in cui espresse al meglio la sua bellezza, la sua fisicità, il suo trucco, gli abiti americani e la casetta sulla 19esima strada est di Hamilton, nella quale ha vissuto col marito costruendosi una rete di relazioni sociali che l’hanno accompagnata sino alla morte.
Nulla a che vedere con l’altra sua casa, Ribera, dove anni or sono incontrò l’amore della sua vita, un militare che sfilava davanti la sua casa e si innamorò subito dei suoi pomposi capelli rossi.
Matrimonio fu, per intercessione di un terzo che venne a riferire a mia zia dell’intento di quel militare di convolare a nozze. E a nozze convolarono, con un vestito da sposa che fu indossato da altre dopo di lei, con ceci e fave da contorno a una cerimonia in una stanza, di cui, a differenza di tante sue coetanee, ricorda ancora qualcosa.
Nulla a che vedere, il Canadà, con l’altra sua casa, Ribera, dove visse la spensierata fanciullezza frequentando una scuola di sartoria.
Eppure, sebbene il paragone incontrastabile, da Ribera venne e a Ribera tornò per i suoi ultimi vent’anni di vita.
L’America, invece, fu solo una parentesi che la caratterizzò per tutti gli anni a seguire. Insomma, basta guardare dentro il suo armadio e rendersi conto di quanto appeal esercitasse tutto il suo buon costume d’una volta. Basta perdersi tra i quadri che tiene in casa e quel mito di ‘zia d’America’ che la seguì ovunque andasse.
Cose che non torneranno, queste. Lei lo sa bene, così come non torneranno le candeline sulla torta ad ogni suo compleanno, per la foto di rito coi parenti che da qualche anno non riesce più a vedere, ma questo non la ferma dallo scattarne sempre una nuova.
I suoi anni, così, diventano chiari su una torta, lei che scherzando cercava di nasconderli sempre, e si affiancano a vassoi di tavola calda, che lei stessa comprerà per il solo piacere di avere qualcuno intorno. Non qualcuno qualsiasi, ma qualcuno che ne condividesse il sangue, il passato, che fosse il frutto di un fratello morto negli anni novanta, che soccombesse alla morte dell’altro fratello in Francia e tutta una serie di mancanze cui prima o poi tutti andiamo incontro.
Mi chiede se voglio della coca-cola, io che sin da bambino gliene rubavo una bottiglia ogni volta che andassi a trovarla. Ma da qualche tempo ho smesso.
Poi si perde nel vuoto ed io la lascio fare, perché farle riportare lo sguardo sulla mia posizione è più facile a dirsi che a farsi, lei che è convinta, ahimè, di continuare a guardarmi. Stavolta accenno io un sorriso, di quelli che hanno un retrogusto amaro, di quelli che ti fanno desiderare e sperare di non arrivare mai a quel punto, che ti fanno sentire piccolo in confronto ad una donna di novant’anni, mai anziana se non negli ultimi dieci mesi di vita, che invece ha avuto il coraggio di prender di petto ogni decisione che il suo Signore avesse preso per lei.
Visto che della sua età non vuol parlare, le chiedo di parlarmi della sua vita, della sua storia e lei non esita un minuto. Alza gli occhi al cielo, come a cercare di appigliarsi ad un ricordo esatto da cui partire.
Gli occhi al cielo, già. Che cielo buio!
Mi racconta dei suoi genitori, cita il nome della sarta che le trasmise la passione d’una vita, estrae dal bagaglio del suo passato aneddoti e storielle su modi di dire e di fare della Ribera degli anni 50. Io prendo appunti.
Un giorno scriverò di lei, mi dico tra me e me, e adesso lo sto proprio facendo.
Nel mentre parla, quando torno a visitarla con la mente in quel 2013, mi piacerebbe tanto interromperla e concentrarmi più sul suo volto.
Ho la sensazione che allora celasse tanta più nostalgia di quanto non mi mostrò o io non fui in grado di cogliere. Eppure mi limito sempre a lasciarla parlare, perché la sensazione di tristezza che penso l’attanagliasse ogni qualvolta si riferiva ad immagini ed eventi che riusciva solo ad immaginare, senza nemmeno posare più lo sguardo su una foto ricordo, è niente in confronto alla sua voce: l’unica cosa della quale temo, pian piano, di cominciare a perdere le tracce.
Provo per la prima volta anch’io una piccola sensazione di buio, e immagino quanto grande fosse invece il suo, di buio. Così grande da perdersi tra la porta del bagno e quella delle scale prima di fare una brutta caduta che la costrinse a passare i suoi ultimi dieci mesi di vita su un letto, in una casa non sua, con sapori non suoi, ma con tutto l’affetto di cui aveva bisogno dal suo stesso sangue, da una nipote a cui decise di affidare l’intera sua vita e salute.
Quella sul letto, impossibilitata ad alzarsi e a camminare in una casa non sua, è una donna totalmente diversa da quella che vado sempre a visitare: nell’aspetto, nella voce rauca, nell’udito sempre meno presente, e il nero totale nei suoi occhi, senza il minimo spazio di ombre e contorni.
Nemmeno più quello.
E così, ad una donna forte e negli ultimi anni anche cieca, che si cucinava da sola, si lavava da sola, pigiava a memoria sui tasti del telefono senza nemmeno vedere dove fosse il tre o il quattro, si è venuta a sostituire una donna debole, che ha lasciato cadere ogni corazza, che ha bisogno di qualcuno che le faccia sorseggiare la sua coca-cola, che le cambi il panno e che la controlli quando -mostrando gli ultimi segni di forza rimasti- si intestardisce e decide che deve alzarsi dal letto. E lo fa, con le gambe tutte esili e con solo addosso i pigiami e le sottane di una vita al chiuso, sostituitesi agli eleganti vestiti di stoffa pregiata. Un ultimo vestito però, lo ha voluto indossare, dentro quella bara dove al buio degli occhi è stata sopraggiunta da quello del cuore, dell’anima.
Immagini forti, tristi ricordi, legati tra loro da un sottile strato di nostalgia. Momenti anche belli, ma mai belli quanto quel 2013 in cui una donna tutta d’un pezzo mi accoglie a casa sua e mi parla di sé.
È lì che vado ogni volta con la mente, ed è lì che sto andando adesso. A trovarla ancora, per pochi istanti, e sentirmi vicino ad una persona che vicina, fisicamente, non mi è più.

E il 2013 viene all’improvviso. Ed io sono fuori la sua porta, in attesa che venga ad aprirmi. La chiave ruota nella serratura più volte. Da fuori riesco a sentire Radio Maria in sottofondo e la voce meccanica di una radiolina che disturba le sue preghiere per ricordarle l’ora. Poi lei, come sempre, mi apre e mi accoglie in casa.
E tutto è improvvisamente più bello.

Le piccole cose

Un giorno hai dieci anni e niente ti rende più felice di un regalo da scartare, del trovare la figurina mancante al tuo album di calciatori, dell’entrare in un qualsiasi bar e sorridere quando il nonno, il papà ti compra il gelato, una barretta, il lecca lecca dal gusto fragola e panna, o coca cola, che fai sempre un po’ fatica a scartare. Ci provi coi denti, a togliere l’involucro, ma niente. Poi con le manine, ancora pulite, con le unghie tagliate con cura dalla mamma, ma ancora niente.
Hai solo dieci anni e qualcuno è sempre lì, con te, pronto a scartarti il regalo, ad aprirti il lecca lecca, mentre ti guarda essere felice per cose che, un giorno, capirai essere banali. E non tanto importanti.
Poi, un altro giorno, di anni ne hai quindici. Cosa vuoi che ti interessi dell’entrare in un bar e farti comprare il gelato? L’involucro del lecca lecca non è più un problema. Per lo meno, non sempre.
I voti a scuola, quelli, probabilmente, lo sono giusto un po’. Hai quindici anni, e che tu vada al liceo o in qualsiasi altra scuola, la tua felicità dipende dai bisogni che ha la tua generazione: il motorino, la paghetta, le mani della zia o dei nonni nel portafoglio, ogni volta che vai a trovarli e ti stendi sul divano, chiedendoti quando arriverà il messaggio degli amici che ti catapulterà, in pochi minuti, nella piazzetta periferica del paese.
Pedalare, ora, è una cosa semplice, allacciarsi le scarpe ancora di più, ma continui ad essere legato al bisogno che hai di vedere una persona pronta a difenderti, a riprenderti, stimolarti e a rimproverarti, esserti affianco quando rifletti sul fatto che sei ancora un bambino e, per questo, hai ancora bisogno di protezione.
Credi di crescere almeno un po’ solo quando imbocchi la tua prima sigaretta, di nascosto dalla tua famiglia, dai parenti, dagli amici della tua famiglia e da chiunque possa metterti nei guai. Di anni ne hai diciassette. Cosa vuoi che sia il motorino, ora? E i bisogni della tua generazione, cosa vuoi che siano? La tua felicità dipende dalla patente ormai prossima, dal telefono che va di moda, dalla presenza, nella tua quotidianità, di qualche ragazzina che ti farà prendere una bella cotta.
O di qualche ragazzina a cui farai prendere una bella cotta.
E ti sentirai felice, solo perché hai diciassette anni. Del giudizio della gente puoi anche fregartene, puoi permetterti il lusso di ingannare qualcun altro, prenderlo anche in giro, schierandoti dalla parte di chi non ha bisogno di aiuto, piuttosto che dare la tua mano a chi la afferrerebbe volentieri.
Improvvisamente hai vent’anni, dagli ultimi tempi non sei poi cambiato chissà quanto. Oppure sei diventato un’altra persona. E speri in meglio, perché ti convinci che la vita è un percorso che ti vuole vedere progredire. Non il contrario.
Hai vent’anni e le sigarette non sono più un problema. Fumi con chi vuoi, quanto vuoi, dove vuoi, e non permetti a nessuno di giudicare la tua scelta. Anche se adesso, un po’, del giudizio della gente ti importa qualcosa. E magari lo neghi, ti convinci sia così, ma sai di sbagliarti. Almeno un po’.
La tua macchina è una carcassa. Ma cammina, anche se arranca un po’, e ti porta dove vuoi. Cosa vuoi che te ne freghi, ora, di avere l’ultimo modello di un Audi che non puoi nemmeno permetterti?
A prescindere dal fatto che tu sia, ora, all’università o dentro qualche bar a servire da bere a gente infelice, hai sempre vent’anni e al bisogno che hai di divertirti, di spaccare il mondo, associ il bisogno opprimente di essere un po’ più indipendente dai tuoi genitori.
Ed è qui, in questo istante, quando noterai lo sguardo di tua madre rivolgersi verso il vuoto, perché lo stipendio di papà non è ancora arrivato, che capirai di stare crescendo, quel poco che basta a farti vedere la vita in modo completamente diverso da come avevi fatto prima. Troverai un lavoro, se avrai fortuna, e ti accontenterai di quello che hai, senza smettere mai di desiderare altro perché i desideri sono sogni e viceversa e sognare è l’unica cosa che non vorrai mai smettere di fare.
Nemmeno quando sembrerà che il mondo o la gente ce l’abbia con te. E tu con il mondo.
Poi, all’improvviso, senza nemmeno rendertene conto, di anni ne hai quasi venticinque. Una famiglia da costruire, la schiena dolorante e il conforto di una ragazza che sai, o speri, ti resterà sempre accanto.
Ci sarà sempre qualcosa che ti ricorderà degli anni passati e quando ci rifletterai, quando ti soffermerai davanti ad un cancello chiuso, che qualche anno prima scavalcavi per perderti tra i cespugli di una villa abbandonata, sarai giunto alla conclusione che la felicità sta nelle piccole cose.
E mi auguro per te, e per me, di non poterci mai lamentare, di essere stati, a pensarci, sempre più felici del solito. Nessun lecca lecca, nessun motorino, nessuna macchina che possa avere il privilegio di godere delle nostre gioie. Ti interesserai di storia, di lingue, di meccanica, di marketing, di business.
Rimpiangerai i vecchi tempi a scuola e scambieresti tutto l’oro del mondo per avere non il gelato al bar ma il nonno che te lo comprava, andatosene prima ancora di raggiungere gli ottanta.
Piccole cose: un sorriso, una stretta di mano, un bacio davanti al mare, un saluto speciale, un abbraccio, il sorriso della mamma, dei fratellini o delle sorelline, il sorriso di un neonato, venuto a portare gioia ad una famiglia che probabilmente ne aveva più bisogno di quanto credessi.
Ti interesserai anche di politica, comincerai a seguire il telegiornale, e che tu sia di destra, di sinistra, filofascista o completamente razzista capirai che tutto quello a cui tieni, e che ti rende felice, ma di una felicità che non scambieresti mai per una mazzetta da centoni, va oltre le tue scelte, il tuo carattere, il tuo modo di fare. Va oltre qualsiasi cosa che possa essere semplicemente descritta su qualche pagina di un tuo vecchio diario scolastico. Crescerai davvero, probabilmente, per la prima volta nella tua vita e sentirai il bisogno, sempre più insistente, di nutrirti, di assetarti, solo ed esclusivamente di piccole cose.
Godrai ogni qualvolta sentirai il gorgoglio del caffè sul fornello, ogni volta che vedrai il cassetto sempre pieno di pane, ringraziando di vivere in una società che di pane ne ha anche abbastanza, a differenza del passato. E auspicherai sempre di avere il ‘pane per i denti. I denti per il pane’, perché sai quanto sottile possa essere la linea che ci separa dallo stravolgimento, dalla differenza, da quella regressione che, secondo te, la vita non dovrebbe mai includere. Mai.
Piccole cose, che capirai ti faranno grande. Grande ogni qualvolta potrai permetterti di prendere un gelato, sulla macchina, in compagnia di tua mamma, e ringraziare il cielo per poter vivere quel momento. Grande ogni volta che vedrai comparire un sorriso sul volto della tua ragazza, quella che ami per davvero, non quella della cotta a diciassette anni, e sapere che quel sorriso è solo ed unicamente causa tua. E ti sentirai sì importante, ma soprattutto felice. Piccole cose che ti faranno grande quanto ti sveglierai col fratellino che viene a darti il buongiorno, o un cucciolo di cane randagio che ti guarda con gli occhi della dolcezza, sapendo che in cambio non vuole altro che un po’ di semplici, pure, rare attenzioni.
Ti laureerai, ti metterai in cerca del lavoro della tua vita, cercherai di inseguire i tuoi sogni, proverai a scrivere un libro, ad aprire un locale, passare una serata in discoteca. Ma godrai ancora di più per quelle piccole cose che troverai tra i libri ingialliti ogni volta che sfoglierai qualche volume in una biblioteca. E in discoteca non ti interesserà niente della vodka, del super alcolico che ti farà inginocchiare in mezzo alla pista mentre sorridi, ebete, a tutti quelli intorno a te. In discoteca cercherai lo sguardo di qualcuno e difficilmente lo incontrerai, ma se mai accadrà assicurati che, per quanto fuggente, quell’attimo possa come rappresentare un’eternità.
Intanto crescerai, sempre di più, e saranno trent’anni. Poi trentacinque. Poi quaranta. Sarai fortunato se qualche nonno sarà ancora in vita, e ti dispiacerà vederlo abbandonarsi perché qualche malattia ha deciso che dovesse andare così. Cercherai di goderti ogni attimo con lui, o con lei, e anche quando sarà troppo tardi per aggiungere altri momenti insieme, penserai che avresti comunque potuto fare di più, che non fosse mai abbastanza. Piccole cose, davvero minuscole, ma cariche di una profondità che solo la superficialità ignora e dimentica. Ma tu, io, non sarai superficiale: rifletterai, commetterai errori e cercherai le scuse di un amico, berrai con lui qualcosa insieme e tornerai ancora a casa, con sempre più piccole cose, piccoli momenti, da aggiungere alla tua memoria. E augurati di non perderla mai, questa memoria. Non riesco ad immaginare quanto possa essere triste ricordare a stento ciò che ci ha fatto più bene. Apprezzerai i posti dimenticati da Dio, perché te ne ricorderai tu al posto suo, e saprai che, in fondo, quei posti ti apparterranno sempre. Così come le persone. La tua famiglia, tua mamma, i tuoi amici, la tua ragazza, i tuoi parenti, la cugina con cui sei cresciuto, i figli della cugina con cui sei cresciuto, le zie e gli zii, loro ti apparterranno sempre. Tu, non scordarti mai di appartenere a loro quanto appartieni a te stesso. Le piccole cose sono intorno a noi, sempre, ventiquattro ore su ventiquattro, bisogna solo coglierle e mai dimenticarsene. A prescindere dal fatto che siamo da soli, in compagnia, ovunque o da nessuna parte.